Possono richiedere l'intervento del Fondo tutti i lavoratori
dipendenti da datori di lavoro tenuti al versamento all'Istituto del
contributo che alimenta la Gestione, compresi i lavoratori con la
qualifica di apprendista ed i dirigenti di aziende industriali.
Ai
soci delle cooperative di lavoro tale tutela è stata riconosciuta
dall’art. 24, comma 1, della legge 24 giugno 1997, n. 196. La norma ha
previsto che i contributi versati al Fondo prima dell’entrata in vigore
della legge conservino la loro efficacia ai fini dell’erogazione delle
prestazioni; di conseguenza, ai dipendenti, potrà essere corrisposto
anche il TFR maturato in periodi anteriori all’entrata in vigore della
legge sopra indicata, purché risultino versati i relativi contributi. Al
contrario, nel caso in cui le società cooperative non abbiano
effettuato alcun versamento, ai soci lavoratori potrà essere erogata
solo la quota di TFR maturata dopo il 1.7.1997.
Il Trattamento di fine rapporto, regolamentato
dall'art. 2120 c.c., è quella somma che il datore di lavoro deve
corrispondere al dipendente in ogni caso di cessazione del rapporto di
lavoro. Il trattamento in parola si calcola sommando, per ogni anno, una
quota pari alla retribuzione annuale diviso per 13,5 ed alla quale va
aggiunta la rivalutazione dell'importo accantonato l'anno
precedente.
Il diritto al TFR matura esclusivamente al
momento della cessazione del rapporto di lavoro, essendo le quote
annuali meri accantonamenti contabili. Si precisa che la dichiarazione
di fallimento, l’apertura di una procedura di liquidazione coatta
amministrava, o di amministrazione straordinaria, non determinano di per
sé la risoluzione del rapporto di lavoro , essendo a tal fine
necessario il licenziamento da parte del responsabile della procedura o
le dimissioni del lavoratore stesso. Il diritto al TFR si prescrive in cinque anni (art. 2948, comma 5, c.c.)
che decorrono dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. Quando
il diritto al TFR è riconosciuto da sentenza di condanna passata in
giudicato si prescrive in dieci anni (art. 2953 c.c.).
Preliminarmente occorre distinguere a seconda che il datore di lavoro
sia soggetto o meno alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267
(Legge fallimentare), perché diversi sono i requisiti del diritto alle
prestazioni del Fondo nell’uno e nell’altro caso.
La
giurisprudenza della Corte di Cassazione , intervenuta sulla
materia, ebbe a chiarire che il criterio distintivo tra le due categorie
deve essere unicamente la condizione soggettiva di cui all’art. 1 della
succitata legge, ovvero l’essere il datore di lavoro: un imprenditore
commerciale oppure un piccolo imprenditore o un imprenditore agricolo.
Ora
l'art. 1 della legge fallimentare così come modificato dal D.Lgs.
9.1.2006, n. 5 stabilisce che sono soggetti al fallimento ed al
concordato preventivo gli imprenditori esercenti un'attività
commerciale, sia in forma individuale sia in forma collettiva, esclusi
gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori. L’art. 2083 c.c. qualifica
come piccolo imprenditore l’artigiano, il piccolo commerciante e
chiunque eserciti un’attività professionale organizzata con il lavoro
proprio e della propria famiglia Tuttavia la nuova formulazione
dell’art. 1 della legge fallimentare stabilisce che, in nessun caso, è
piccolo imprenditore chi supera uno dei seguenti limiti quantitativi: a)
investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a Euro
trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi
lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio
dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo
superiore a Euro duecentomila.
Nessun commento:
Posta un commento