Tizio impugna con ricorso in Cassazione, nei confronti del Ministro dell'Economia e delle Finanze, il decreto della Corte d'Appello di Firenze di rigetto avverso domanda diretta ad ottenere l'equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 .
In particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale, era fondata sui seguenti fatti: a) la Corte d'Appello di Firenze, con decreto aveva condannato il Presidente del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore di Tizio, della somma di Euro 2.500,00, oltre interessi e spese legali; b) tale decreto era stato notificato in forma esecutiva al Ministro dell'Economia e delle Finanze; c) nel perdurante inadempimento dell'Amministrazione, Tizio aveva promosso procedimento di esecuzione forzata nella forma dell'espropriazione presso terzi, conclusasi con ordinanza di assegnazione del credito; d) tra la data del decreto e quella dell'ordinanza di assegnazione del predetto credito da indennizzo erano trascorsi due anni circa, ritardo a sua volta indennizzabile ai sensi della menzionata legge n. 89 del 2001 e dell'art. 6, prf. 1, della CEDU.
La Corte d'Appello di Firenze, con il suddetto decreto impugnato, ha affermato che «[...] la domanda di equariparazione ex art. 3 L. 89/2001 puo' essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che e' stata costretta ad intraprendere [...]».
Con ordinanza interlocutoria la Sesta Sezione Civile, Sottosezione Prima, ha rimesso gli atti al Primo Presidente perche' valutasse l'opportunita' di disporre che le Sezioni Unite si pronuncino sulla questione esposta in motivazione.
Con tale ordinanza interlocutoria, la Sezione rimettente ha osservato testualmente:
«che la fattispecie sottostante al ricorso in esame concerne la domanda di equa riparazione, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, avente ad oggetto il ritardo dell'Amministrazione convenuta nel pagamento dell'indennizzo - dovuto al ricorrente in forza del titolo esecutivo costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 3 della stessa legge n. 89 del 2001 ed azionato esecutivamente nella forma dell'espropriazione presso terzi - per il periodo dalla data della pubblicazione di detto decreto alla data di assegnazione del credito nel processo esecutivo;
che la ratio decidendi della dichiarata inammissibilita' del ricorso per equa riparazione sta in cio', che «l'eventuale risarcimento per la mora debendi e' fattispecie che fuoriesce dalla presente procedura e che deve trovare soddisfazione in un ordinario giudizio di danno», cioe' che il ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo stabilito all'esito di un processo promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001, anche nel caso in cui il titolo relativo sia stato azionato esecutivamente nelle forme dell'espropriazione forzata, e' tutelabile - non gia' mediante una (nuova) domanda di equariparazione, ma - mediante un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il risarcimento del danno da detto ritardo, il che val quanto dire che la tutela giurisdizionale di ritardi siffatti, anche se fatti valere nelle forme del processo esecutivo, e' estranea all'ambito di applicazione della stessa legge n. 89 del 2001;
che, com'e' noto, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 27365 del 2009, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all'art. 6 della CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere che, per effetto di detta norma sovranazionale, sono "diritti e obblighi" ai quali, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonche' il processo di cognizione del giudice amministrativo e quello di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione appunto alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l'ulteriore conseguenza che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi (dicognizione, da un lato, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro) e, percio', solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi, e' possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dall'art. 4 della legge n. 89 del 2001, l'equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilita' delle relative istanze in caso di sua inosservanza ;
che pertanto, alla luce, da un lato, della richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009 e, dall'altro, della richiamata giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la questione - se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole delprocesso per equa riparazione, e, piu' in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto - merita, ad avviso del Collegio, di essere (nuovamente) sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, quale questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, c.p.c.».
Il Procuratore generale ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo (con cui deduce: «Violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, dell'articolo 2 della Legge 89/2001, dell'articolo 111 della Costituzione - Violazione del diritto vivente come interpretato dai Giudici Europei ») e con il secondo motivo (con cui deduce: «Erronea ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo - art. 360 n. 5 c.p.c.») - esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione -, il ricorrente critica il decreto impugnato, anche sotto il profilo dei vizi della motivazione, sostenendo che: a) esso viola il principio piu' volte affermato dalla Corte EDU, secondo cui "il procedimento di equa riparazione, conclusosi con decreto di condanna, deve essere fisiologicamente eseguito dalla Amministrazione debitrice nel termine di sei mesi e cinque giorni dalla data di deposito del decreto (I fase). Trascorso inutilmente tale termine, inizia a decorrere un ulteriore periodo di durata irragionevole (II fase) destinato a concludersi con il pagamento delle somme dovute a titolo di equa riparazione"; b) i Giudici a quibus hanno del tutto omesso di considerare che la Corte EDU, in un caso analogo, ha affermato: «La Corte ricorda che il diritto all'accesso a un tribunale garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione sarebbe illusorio se l'ordinamento di uno Stato Contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria resti inoperante a danno di una parte. L'esecuzione di una sentenza, da qualunque giurisdizione promani, deve essere considerata come facente parte integrante del "processo" ai sensi dell'art. 6» della CEDU.
In altri termini, i Giudici a quibus - qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo ne lpagamento dei gia' riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto - hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001. Questa affermazione ne presuppone, all'evidenza, altre: cioe', che la "realizzazione" - la quale include, ovviamente, anche il tempo trascorso (ritardo) per ottenerla - del diritto a detto indennizzo - sulla base del medesimo "titolo" fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001 -, mediante lo strumento della stessa legge n. 89 del 2001 (domanda di ulteriore equa riparazione per il ritardo nella realizzazione), eccede l'ambito applicativo di tale legge, e che il processo di esecuzione forzata eventualmente promosso per la realizzazione medesima, essendo del tutto autonomo rispetto al processo di cognizione di formazione del titolo, in tanto determina il diritto ad un (ulteriore) indennizzo in quanto ecceda il termine della sua ragionevole durata (tre anni secondo il costante orientamento di questa Corte, nella specie non superato).
Com'e' noto, questa ricostruzione si fonda, sostanzialmente, soprattutto sul principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di violazione della ragionevole durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, tale processo deve essere individuato - in base all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 - sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate sulle quali il giudice adito deve decidere, situazioni che, per effetto della norma convenzionale, sono "diritti e obblighi" cui, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi fatti valere dinanzi ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione, regolati dal codice di procedura civile, nonche' quello di cognizione del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza, volto a far conformare la Pubblica Amministrazione a quanto deciso in sede di cognizione, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione, appunto, alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l'ulteriore conseguenza che, in ragione di detta autonomia, le durate dei giudizi (di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro) non possono sommarsi per rilevarne una complessiva .
Alla luce pertanto, da un lato, della su descritta fattispecie e, dall'altro, dei principi enunciati con la sentenza n. 27365 del 2009, le questioni sottoposte a queste Sezioni Unite possono essere cosi' formulate (in parziale correzione di quelle formulate con la su riprodotta ordinanza di rimessione): a) se il ritardo nella "realizzazione" del diritto all'indennizzo ed agli interessi, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, gia' fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 - realizzazione che include anche il tempo trascorso per ottenerla (ritardo nel pagamento dell'indennizzo, appunto) - possa o no esser fatto valere mediante lo strumento della medesima legge n. 89 del 2001, vale a dire mediante domanda di (ulteriore) equa riparazione per il ritardo nella realizzazione, e se, in particolare, ilprocesso di esecuzione forzata, eventualmente promosso per ottenere la realizzazione medesima, possa qualificarsi o no del tutto autonomo rispetto al precedente processo di cognizione di formazione del titolo; b) se il rimedio al ritardo nell'adempimento della Pubblica Amministrazione - per il tempo trascorso tra il definitivo riconoscimento del diritto all'indennizzo e la realizzazione di tale diritto (pagamento) - debba necessariamente consistere in un ulteriore indennizzoliquidato al titolare del diritto ai sensi della legge n. 89 del 2001, ovvero possa consistere anche nel riconoscimento degliinteressi.
Sulla base di detti principi e delle conseguenti precisazioni della Corte di Strasburgo, si possono individuare le seguenti fattispecie tipiche, distinte secondo il "principio della domanda": a seconda cioe' che il ricorrente - si sottolinea: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato - abbia fatto valere, dinanzi alla competente corte d'appello, il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, ovvero l'«autonomo» diritto all'esecuzionedelle decisioni interne esecutive, vale a dire (anche) del decreto Pinto definitivo e obbligatorio.
A) Il caso in cui il ricorrente abbia fatto valere il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole puo' essere ulteriormente suddistinto, a seconda che sia stata dedotta in giudizio la durata irragionevole della sola "fase" di cognizioneovvero anche della promossa ed esaurita "fase" di esecuzione forzata del titolo definitivo ottenuto nella prima fase.
A1) Nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012), ilricorrente puo' far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima legge n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazioneper la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficolta' interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed e' agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonche', specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012 citt.).
A2) Nel caso in cui la "fase" della cognizione del processo "Pinto" si sia conclusa in senso favorevole al ricorrente, la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi (secondo la giurisprudenza della CEDU dianzi citata) e cinque giorni (in forza dell'art. 133, secondo comma, c.p.c.) dalla data in cui il provvedimento che la accorda e' divenuto esecutivo (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 15658 del 2012, in fattispecie identica a quella in esame), con la conseguenza che, ove il predetto termine dilatorio non sia stato rispettato dall'Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto - procedimento, questo, da considerarsi, sulla base di tutte le considerazioni che precedono, quale "fase dell'esecuzione" di un unico processo, che ha inizio con la domanda di equa riparazione e fine con la conclusione di tale seconda fase -, la durata complessiva di tale processo e' costituita dalla somma della durata delle due fasi, di cognizione e di esecuzione, con l'ulteriore conseguenza che, se tale complessiva durata eccede il termine di due anni (cfr., supra, lettera A1), sei mesi e cinque giorni, lo stesso titolare ha diritto all'equa riparazione commisurata a tale eccedenza, diritto da far esplicitamente valere - si ribadisce: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato, cioe' del diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole - nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, in particolare entro sei mesi dalla data del provvedimento conclusivo della "fase" di esecuzione forzata (ai sensi dell'art. 4 della legge n. 89 del 2001, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d, del d.l. n. 83 del 2012), data nella quale - si sottolinea - puo' non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme dovute.
B) Il caso - in cui il ricorrente abbia fatto valere, invece, il diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive, cioe' del decreto di condanna Pinto definitivo, dolendosi del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento delle somme relative - puo' essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l'esecuzione forzata del titolo cosi' ottenuto, circostanze queste, come piu' volte sottolineato, da dedurre nel giudizio in modo adeguato e specifico.
B1) Nel primo caso (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata) - ribadito che la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi e cinque giorni dalla data in cui il provvedimento che la accorda e' divenuto esecutivo -, il ricorrente ha il diritto - fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive» - ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all'entita' del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella "realizzazione" dell'indennizzo e degliinteressi (gia' riconosciuti per l'irragionevole durata del processo "presupposto"), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata.
Tale diritto, tuttavia - per le anzidette ragioni puo' esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte di Strasburgo, come del resto accaduto numerosissime volte.
B2) Nel secondo caso (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata) -, in cui cioe' il titolare del diritto all'indennizzo ed agli interessi per l'irragionevole durata del processo presupposto abbia scelto di tenere un comportamento di "attesa" della realizzazione del suo credito senza svolgere ulteriori attivita', facendo implicitamente valere soltanto il "mero ritardo", per cosi' dire, nel pagamento delle somme corrispondenti -, potrebbero astrattamente prospettarsi le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell'Amministrazione e' costituito dal titolo della gia' pronunciata condanna al pagamento degli interessi "corrispettivi" dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono ininteressi "moratori", dovuti appunto fino alla data dell'effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo - ed e' questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo - e' costituito, anche in questo caso, da un ulterioreindennizzo, dovuto dall'Amministrazione in forza dell'art. 41 della Convenzione, per la violazione dell'art. 6, prf. 1, sotto il piu' volte richiamato profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive», e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all'Amministrazione medesima per il pagamento.
Anche in questo caso, tuttavia, tale diritto - per le anzidette ragioni , non puo' esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU.
È opportuno precisare, in via meramente incidentale, che la prospettazione di tale alternativa, quanto al rimedio a detto ritardo, si giustifica perche', in quest'ultimo caso - caratterizzato come dianzi rilevato, a differenza di quello descritto sub B1), dall'omessa promozione del procedimento di esecuzione forzata con conseguente ovvio risparmio delle spese di taleprocedimento, cioe' dalla "mera attesa" del pagamento dovuto -, se e' vero che si fa parimenti valere in giudizio la violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive» e, quindi, il diritto ad un'equa soddisfazione, e' anche vero che - nell'ordinamento italiano - potrebbe ritenersi irragionevole e sproporzionato, rispetto alla fattispecie descritta sub B1), e quindi in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, riconoscere un "risarcimento" maggiore di quello previsto, in via generale nell'ordinamento italiano appunto, dall'art. 1224, primo comma, primo periodo, c.c., secondo cui «Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno» (il "risarcimento" costituito dalla corresponsione degli interessi moratori e' previsto, altresi', da numerose altre normative di settore).
Sulla ricostruzione che precede, peraltro, sembra non influire l'art. 5-quinquies (recante la rubrica «Esecuzione forzata») della legge n. 89 del 2001, inserito dall'art. 6, comma 6, del d.l. 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per ilpagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonche' in materia di versamento di tributi degli enti locali), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 6 giugno 2013, n. 64, entrato in vigore il 9 aprile 2013.
Infatti, le disposizioni di tale articolo - volte esplicitamente «al fine di assicurare un'ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma» della legge n. 89 del 2001 (comma 1) -, da un lato, vietano, «a pena di nullita' rilevabile d'ufficio, atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva» di tali somme (comma 1), e stabiliscono l'impignorabilita' di somme gia' destinate al pagamentodelle somme medesime, dall'altro, dispongono che «i creditori di dette somme, a pena di nullita' rilevabile d'ufficio, eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile», cioe' esclusivamente nella forma «Dell'espropriazione mobiliare presso il debitore» (comma 2, primo periodo), dettando altresi' rigorose modalita' per la formazione e per la notificazione dei relativi atti e determinandone gli effetti (comma 2, secondo periodo, e comma 3).
È, dunque, plausibile ritenere l'ininfluenza di tali disposizioni sulle fattispecie dianzi descritte sub A2) e B1), per la decisiva ragione che le stesse disposizioni si limitano a regolare, tra l'altro, soltanto la "fase" (iniziale) dell'esecuzione forzata del titolo costituito dal decreto di condanna emesso all'esito della "fase" di cognizione del processo Pinto, senza peraltro incidere ne' sull'eventuale prosecuzione del processo di esecuzione forzata ne', ovviamente, sulla indefettibile necessita' che all'esito della "fase" esecutiva consegua comunque la realizzazione del credito (pagamento).
Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso in esame non merita accoglimento.
Chiesta ed ottenuta dalla Corte d'Appello di Firenze, con decreto definitivo di condanna ed esecutivo ex lege, una somma a titolo di equa riparazione, oltreinteressi, per l'irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 - ilricorrente, titolare del relativo diritto all'indennizzo ed agli interessi, nell'asserito perdurante inadempimento dell'obbligo dipagamento di detta somma da parte della competente Amministrazione, protrattosi per oltre sei mesi e cinque giorni, ha promosso processo di esecuzione forzata, nella forma dell'espropriazione presso terzi, per la realizzazione dello stesso diritto, processo esecutivo durato meno di tre anni e conclusosi con ordinanza di assegnazione del credito; successivamente, il ricorrente medesimo ha promosso dinanzi alla stessa Corte d'Appello di Firenze l'odierno giudizio ai sensi della medesima legge n. 89 del 2001, ivi proponendo domanda di (ulteriore) equa riparazione.
La Corte adita - dopo aver premesso: «Risulta dal ricorso che l'equa riparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensi' in relazione al ritardo nel pagamento. Sostiene il ricorrente che "l'ambito di applicazione dell'art. 6 CEDU non e' limitato al giudizio di cognizione, ma comprende la effettiva esecuzione della sentenza da parte dell'Amministrazione soccombente", intendendo evidentemente affermare che il danno da eccessiva durata del processo si aggrava per il fatto che l'Amministrazione non provveda celermente al pagamento di quanto riconosciuto dalla Corte d'appello per equa riparazione» - ha affermato: «Risulta dal ricorso che l'equariparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensi' al ritardo nel pagamento. La domanda di equa riparazione ex art. 3 l. 89/2001 puo' essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che e' stata costretta ad intraprendere e la domanda non e' riconducibile alla L. 89/2001».
Deve ribadirsi, in limine, il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale il potere di interpretare la domanda e' attribuito esclusivamente al giudice di merito e il suo esercizio, consistente nell'interpretazione, nella qualificazione e nella valutazione della stessa domanda, non e' censurabile in sede di legittimita' ove motivato in modo sufficiente, non contraddittorio ed immune da vizi logici e giuridici, ed aggiungersi, altresi', che il potere-dovere del giudice di merito di qualificare giuridicamente l'azione, e percio' anche di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, incontra il solo limite costituito dal divieto di sostituire la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realta' fattuale non dedotta ne' allegata in giudizio.
Nella specie, la ratio decidendi del decreto impugnato - con il quale i Giudici a quibus, qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo nel pagamento dei gia' riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001 - risulta adeguatamente e correttamente motivata nel senso dell'inapplicabilita' della legge Pinto alla fattispecie concretamente dedotta in giudizio, mentre il ricorrente, anziche' confutare specificamente l'affermazione che la domanda non e' riconducibile all'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001, si e' limitato a criticare genericamente la qualificazione della domanda operata dai Giudici a quibus, omettendo cioe' di argomentare criticamente e specificamente in ordine alla negata riconducibilita' nell'ambito applicativo della stessa legge n. 89 del 2001 anche della fattispecie del ritardo nel pagamento delle somme portate dal decreto Pinto.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.