martedì 29 aprile 2014

CASSAZIONE N 6312 DEL 19.03.2014 RICONOSCIMENTO DI ULTERIORE INDENNIZZO IN CASO DI RITARDO DELLA P.A. NEL PAGAMENTO DELL'EQUO INDENNIZZO LEGGE PINTO

Tizio impugna con ricorso in Cassazione, nei confronti del Ministro dell'Economia e delle Finanze, il decreto della Corte d'Appello di Firenze di rigetto avverso domanda diretta ad ottenere l'equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 .
In particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale,  era fondata sui seguenti fatti: a) la Corte d'Appello di Firenze, con decreto aveva condannato il Presidente del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore di Tizio, della somma di Euro 2.500,00, oltre interessi e spese legali; b) tale decreto era stato notificato in forma esecutiva al Ministro dell'Economia e delle Finanze; c) nel perdurante inadempimento dell'Amministrazione, Tizio aveva promosso procedimento di esecuzione forzata nella forma dell'espropriazione presso terzi, conclusasi con ordinanza di assegnazione del credito; d) tra la data del decreto e quella dell'ordinanza di assegnazione del predetto credito da indennizzo  erano trascorsi due anni circa, ritardo a sua volta indennizzabile ai sensi della menzionata legge n. 89 del 2001 e dell'art. 6, prf. 1, della CEDU.
La Corte d'Appello di Firenze, con il suddetto decreto impugnato, ha affermato che «[...] la domanda di equariparazione ex art. 3 L. 89/2001 puo' essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che e' stata costretta ad intraprendere [...]».
 Con ordinanza interlocutoria  la Sesta Sezione Civile, Sottosezione Prima, ha rimesso gli atti al Primo Presidente perche' valutasse l'opportunita' di disporre che le Sezioni Unite si pronuncino sulla questione esposta in motivazione.
Con tale ordinanza interlocutoria, la Sezione rimettente ha osservato testualmente:
«che la fattispecie sottostante al ricorso in esame concerne la domanda di equa riparazione, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, avente ad oggetto il ritardo dell'Amministrazione convenuta nel pagamento dell'indennizzo - dovuto al ricorrente in forza del titolo esecutivo costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 3 della stessa legge n. 89 del 2001 ed azionato esecutivamente nella forma dell'espropriazione presso terzi - per il periodo dalla data della pubblicazione di detto decreto alla data di assegnazione del credito nel processo esecutivo;
che la ratio decidendi della dichiarata inammissibilita' del ricorso per equa riparazione sta in cio', che «l'eventuale risarcimento per la mora debendi e' fattispecie che fuoriesce dalla presente procedura e che deve trovare soddisfazione in un ordinario giudizio di danno», cioe' che il ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo stabilito all'esito di un processo promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001, anche nel caso in cui il titolo relativo sia stato azionato esecutivamente nelle forme dell'espropriazione forzata, e' tutelabile - non gia' mediante una (nuova) domanda di equariparazione, ma - mediante un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il risarcimento del danno da detto ritardo, il che val quanto dire che la tutela giurisdizionale di ritardi siffatti, anche se fatti valere nelle forme del processo esecutivo, e' estranea all'ambito di applicazione della stessa legge n. 89 del 2001;
che, com'e' noto, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 27365 del 2009, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all'art. 6 della CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere che, per effetto di detta norma sovranazionale, sono "diritti e obblighi" ai quali, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonche' il processo di cognizione del giudice amministrativo e quello di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione appunto alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l'ulteriore conseguenza che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi (dicognizione, da un lato, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro) e, percio', solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi, e' possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dall'art. 4 della legge n. 89 del 2001, l'equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilita' delle relative istanze in caso di sua inosservanza ;
che pertanto, alla luce, da un lato, della richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009 e, dall'altro, della richiamata giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la questione - se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento dell'indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunciato dalla corte d'appello ai sensi dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole delprocesso per equa riparazione, e, piu' in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole dello stesso processo presupposto - merita, ad avviso del Collegio, di essere (nuovamente) sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, quale questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, c.p.c.».
Il Procuratore generale ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo (con cui deduce: «Violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, dell'articolo 2 della Legge 89/2001, dell'articolo 111 della Costituzione - Violazione del diritto vivente come interpretato dai Giudici Europei ») e con il secondo motivo (con cui deduce: «Erronea ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo - art. 360 n. 5 c.p.c.») - esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione -, il ricorrente critica il decreto impugnato, anche sotto il profilo dei vizi della motivazione, sostenendo che: a) esso viola il principio piu' volte affermato dalla Corte EDU, secondo cui "il procedimento di equa riparazione, conclusosi con decreto di condanna, deve essere fisiologicamente eseguito dalla Amministrazione debitrice nel termine di sei mesi e cinque giorni dalla data di deposito del decreto (I fase). Trascorso inutilmente tale termine, inizia a decorrere un ulteriore periodo di durata irragionevole (II fase) destinato a concludersi con il pagamento delle somme dovute a titolo di equa riparazione"; b) i Giudici a quibus hanno del tutto omesso di considerare che la Corte EDU, in un caso analogo, ha affermato: «La Corte ricorda che il diritto all'accesso a un tribunale garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione sarebbe illusorio se l'ordinamento di uno Stato Contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria resti inoperante a danno di una parte. L'esecuzione di una sentenza, da qualunque giurisdizione promani, deve essere considerata come facente parte integrante del "processo" ai sensi dell'art. 6» della CEDU.
In altri termini, i Giudici a quibus - qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo ne lpagamento dei gia' riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto - hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001. Questa affermazione ne presuppone, all'evidenza, altre: cioe', che la "realizzazione" - la quale include, ovviamente, anche il tempo trascorso (ritardo) per ottenerla - del diritto a detto indennizzo - sulla base del medesimo "titolo" fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001 -, mediante lo strumento della stessa legge n. 89 del 2001 (domanda di ulteriore equa riparazione per il ritardo nella realizzazione), eccede l'ambito applicativo di tale legge, e che il processo di esecuzione forzata eventualmente promosso per la realizzazione medesima, essendo del tutto autonomo rispetto al processo di cognizione di formazione del titolo, in tanto determina il diritto ad un (ulteriore) indennizzo in quanto ecceda il termine della sua ragionevole durata (tre anni secondo il costante orientamento di questa Corte, nella specie non superato).
Com'e' noto, questa ricostruzione si fonda, sostanzialmente, soprattutto sul principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di violazione della ragionevole durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, tale processo deve essere individuato - in base all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 - sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate sulle quali il giudice adito deve decidere, situazioni che, per effetto della norma convenzionale, sono "diritti e obblighi" cui, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi fatti valere dinanzi ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione, regolati dal codice di procedura civile, nonche' quello di cognizione del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza, volto a far conformare la Pubblica Amministrazione a quanto deciso in sede di cognizione, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione, appunto, alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l'ulteriore conseguenza che, in ragione di detta autonomia, le durate dei giudizi (di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall'altro) non possono sommarsi per rilevarne una complessiva .
Alla luce pertanto, da un lato, della su descritta fattispecie e, dall'altro, dei principi enunciati con la sentenza n. 27365 del 2009, le questioni sottoposte a queste Sezioni Unite possono essere cosi' formulate (in parziale correzione di quelle formulate con la su riprodotta ordinanza di rimessione): a) se il ritardo nella "realizzazione" del diritto all'indennizzo ed agli interessi, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, gia' fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 - realizzazione che include anche il tempo trascorso per ottenerla (ritardo nel pagamento dell'indennizzo, appunto) - possa o no esser fatto valere mediante lo strumento della medesima legge n. 89 del 2001, vale a dire mediante domanda di (ulteriore) equa riparazione per il ritardo nella realizzazione, e se, in particolare, ilprocesso di esecuzione forzata, eventualmente promosso per ottenere la realizzazione medesima, possa qualificarsi o no del tutto autonomo rispetto al precedente processo di cognizione di formazione del titolo; b) se il rimedio al ritardo nell'adempimento della Pubblica Amministrazione - per il tempo trascorso tra il definitivo riconoscimento del diritto all'indennizzo e la realizzazione di tale diritto (pagamento) - debba necessariamente consistere in un ulteriore indennizzoliquidato al titolare del diritto ai sensi della legge n. 89 del 2001, ovvero possa consistere anche nel riconoscimento degliinteressi.

Sulla base di detti principi e delle conseguenti precisazioni della Corte di Strasburgo, si possono individuare le seguenti fattispecie tipiche, distinte secondo il "principio della domanda": a seconda cioe' che il ricorrente - si sottolinea: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato - abbia fatto valere, dinanzi alla competente corte d'appello, il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, ovvero l'«autonomo» diritto all'esecuzionedelle decisioni interne esecutive, vale a dire (anche) del decreto Pinto definitivo e obbligatorio.
A) Il caso in cui il ricorrente abbia fatto valere il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole puo' essere ulteriormente suddistinto, a seconda che sia stata dedotta in giudizio la durata irragionevole della sola "fase" di cognizioneovvero anche della promossa ed esaurita "fase" di esecuzione forzata del titolo definitivo ottenuto nella prima fase.
A1) Nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012), ilricorrente puo' far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima legge n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazioneper la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficolta' interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed e' agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonche', specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012 citt.).
A2) Nel caso in cui la "fase" della cognizione del processo "Pinto" si sia conclusa in senso favorevole al ricorrente, la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi (secondo la giurisprudenza della CEDU dianzi citata) e cinque giorni (in forza dell'art. 133, secondo comma, c.p.c.) dalla data in cui il provvedimento che la accorda e' divenuto esecutivo (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 15658 del 2012, in fattispecie identica a quella in esame), con la conseguenza che, ove il predetto termine dilatorio non sia stato rispettato dall'Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto - procedimento, questo, da considerarsi, sulla base di tutte le considerazioni che precedono, quale "fase dell'esecuzione" di un unico processo, che ha inizio con la domanda di equa riparazione e fine con la conclusione di tale seconda fase -, la durata complessiva di tale processo e' costituita dalla somma della durata delle due fasi, di cognizione e di esecuzione, con l'ulteriore conseguenza che, se tale complessiva durata eccede il termine di due anni (cfr., supra, lettera A1), sei mesi e cinque giorni, lo stesso titolare ha diritto all'equa riparazione commisurata a tale eccedenza, diritto da far esplicitamente valere - si ribadisce: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato, cioe' del diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole - nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, in particolare entro sei mesi dalla data del provvedimento conclusivo della "fase" di esecuzione forzata (ai sensi dell'art. 4 della legge n. 89 del 2001, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d, del d.l. n. 83 del 2012), data nella quale - si sottolinea - puo' non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme dovute.
B) Il caso - in cui il ricorrente abbia fatto valere, invece, il diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive, cioe' del decreto di condanna Pinto definitivo, dolendosi del ritardo dell'Amministrazione nel pagamento delle somme relative - puo' essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l'esecuzione forzata del titolo cosi' ottenuto, circostanze queste, come piu' volte sottolineato, da dedurre nel giudizio in modo adeguato e specifico.
B1) Nel primo caso (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata) - ribadito che la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall'Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi e cinque giorni dalla data in cui il provvedimento che la accorda e' divenuto esecutivo -, il ricorrente ha il diritto - fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive» - ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all'entita' del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella "realizzazione" dell'indennizzo e degliinteressi (gia' riconosciuti per l'irragionevole durata del processo "presupposto"), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata.
Tale diritto, tuttavia - per le anzidette ragioni puo' esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte di Strasburgo, come del resto accaduto numerosissime volte.
B2) Nel secondo caso (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata) -, in cui cioe' il titolare del diritto all'indennizzo ed agli interessi per l'irragionevole durata del processo presupposto abbia scelto di tenere un comportamento di "attesa" della realizzazione del suo credito senza svolgere ulteriori attivita', facendo implicitamente valere soltanto il "mero ritardo", per cosi' dire, nel pagamento delle somme corrispondenti -, potrebbero astrattamente prospettarsi le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell'Amministrazione e' costituito dal titolo della gia' pronunciata condanna al pagamento degli interessi "corrispettivi" dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono ininteressi "moratori", dovuti appunto fino alla data dell'effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo - ed e' questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo - e' costituito, anche in questo caso, da un ulterioreindennizzo, dovuto dall'Amministrazione in forza dell'art. 41 della Convenzione, per la violazione dell'art. 6, prf. 1, sotto il piu' volte richiamato profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive», e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all'Amministrazione medesima per il pagamento.
Anche in questo caso, tuttavia, tale diritto - per le anzidette ragioni , non puo' esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU.
È opportuno precisare, in via meramente incidentale, che la prospettazione di tale alternativa, quanto al rimedio a detto ritardo, si giustifica perche', in quest'ultimo caso - caratterizzato come dianzi rilevato, a differenza di quello descritto sub B1), dall'omessa promozione del procedimento di esecuzione forzata con conseguente ovvio risparmio delle spese di taleprocedimento, cioe' dalla "mera attesa" del pagamento dovuto -, se e' vero che si fa parimenti valere in giudizio la violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il profilo del «diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive» e, quindi, il diritto ad un'equa soddisfazione, e' anche vero che - nell'ordinamento italiano - potrebbe ritenersi irragionevole e sproporzionato, rispetto alla fattispecie descritta sub B1), e quindi in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza, riconoscere un "risarcimento" maggiore di quello previsto, in via generale nell'ordinamento italiano appunto, dall'art. 1224, primo comma, primo periodo, c.c., secondo cui «Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno» (il "risarcimento" costituito dalla corresponsione degli interessi moratori e' previsto, altresi', da numerose altre normative di settore).
Sulla ricostruzione che precede, peraltro, sembra non influire l'art. 5-quinquies (recante la rubrica «Esecuzione forzata») della legge n. 89 del 2001, inserito dall'art. 6, comma 6, del d.l. 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per ilpagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonche' in materia di versamento di tributi degli enti locali), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 6 giugno 2013, n. 64, entrato in vigore il 9 aprile 2013.
Infatti, le disposizioni di tale articolo - volte esplicitamente «al fine di assicurare un'ordinata programmazione dei pagamenti dei creditori di somme liquidate a norma» della legge n. 89 del 2001 (comma 1) -, da un lato, vietano, «a pena di nullita' rilevabile d'ufficio, atti di sequestro o di pignoramento presso la Tesoreria centrale e presso le Tesorerie provinciali dello Stato per la riscossione coattiva» di tali somme (comma 1), e stabiliscono l'impignorabilita' di somme gia' destinate al pagamentodelle somme medesime, dall'altro, dispongono che «i creditori di dette somme, a pena di nullita' rilevabile d'ufficio, eseguono i pignoramenti e i sequestri esclusivamente secondo le disposizioni del libro III, titolo II, capo II del codice di procedura civile», cioe' esclusivamente nella forma «Dell'espropriazione mobiliare presso il debitore» (comma 2, primo periodo), dettando altresi' rigorose modalita' per la formazione e per la notificazione dei relativi atti e determinandone gli effetti (comma 2, secondo periodo, e comma 3).
È, dunque, plausibile ritenere l'ininfluenza di tali disposizioni sulle fattispecie dianzi descritte sub A2) e B1), per la decisiva ragione che le stesse disposizioni si limitano a regolare, tra l'altro, soltanto la "fase" (iniziale) dell'esecuzione forzata del titolo costituito dal decreto di condanna emesso all'esito della "fase" di cognizione del processo Pinto, senza peraltro incidere ne' sull'eventuale prosecuzione del processo di esecuzione forzata ne', ovviamente, sulla indefettibile necessita' che all'esito della "fase" esecutiva consegua comunque la realizzazione del credito (pagamento).
Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso in esame non merita accoglimento.
Chiesta ed ottenuta dalla Corte d'Appello di Firenze, con decreto definitivo di condanna ed esecutivo ex lege, una somma a titolo di equa riparazione, oltreinteressi, per l'irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, ai sensi della stessa legge n. 89 del 2001 - ilricorrente, titolare del relativo diritto all'indennizzo ed agli interessi, nell'asserito perdurante inadempimento dell'obbligo dipagamento di detta somma da parte della competente Amministrazione, protrattosi per oltre sei mesi e cinque giorni, ha promosso processo di esecuzione forzata, nella forma dell'espropriazione presso terzi, per la realizzazione dello stesso diritto, processo esecutivo durato meno di tre anni e conclusosi con ordinanza di assegnazione del credito; successivamente, il ricorrente medesimo ha promosso dinanzi alla stessa Corte d'Appello di Firenze l'odierno giudizio ai sensi della medesima legge n. 89 del 2001, ivi proponendo domanda di (ulteriore) equa riparazione.
La Corte adita - dopo aver premesso: «Risulta dal ricorso che l'equa riparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensi' in relazione al ritardo nel pagamento. Sostiene il ricorrente che "l'ambito di applicazione dell'art. 6 CEDU non e' limitato al giudizio di cognizione, ma comprende la effettiva esecuzione della sentenza da parte dell'Amministrazione soccombente", intendendo evidentemente affermare che il danno da eccessiva durata del processo si aggrava per il fatto che l'Amministrazione non provveda celermente al pagamento di quanto riconosciuto dalla Corte d'appello per equa riparazione» - ha affermato: «Risulta dal ricorso che l'equariparazione non viene chiesta in relazione alla eccessiva durata del processo esecutivo, bensi' al ritardo nel pagamento. La domanda di equa riparazione ex art. 3 l. 89/2001 puo' essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che e' stata costretta ad intraprendere  e la domanda non e' riconducibile alla L. 89/2001».
Deve ribadirsi, in limine, il principio costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale il potere di interpretare la domanda e' attribuito esclusivamente al giudice di merito e il suo esercizio, consistente nell'interpretazione, nella qualificazione e nella valutazione della stessa domanda, non e' censurabile in sede di legittimita' ove motivato in modo sufficiente, non contraddittorio ed immune da vizi logici e giuridici, ed aggiungersi, altresi', che il potere-dovere del giudice di merito di qualificare giuridicamente l'azione, e percio' anche di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, incontra il solo limite costituito dal divieto di sostituire la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realta' fattuale non dedotta ne' allegata in giudizio.
Nella specie, la ratio decidendi del decreto impugnato - con il quale i Giudici a quibus, qualificata la domanda siccome domanda di equa riparazione per il ritardo nel pagamento dei gia' riconosciuti indennizzo ed interessi da irragionevole durata del processo amministrativo presupposto, hanno escluso che una domanda siffatta sia riconducibile nell'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001 - risulta adeguatamente e correttamente motivata nel senso dell'inapplicabilita' della legge Pinto alla fattispecie concretamente dedotta in giudizio, mentre il ricorrente, anziche' confutare specificamente l'affermazione che la domanda non e' riconducibile all'ambito di applicazione della legge n. 89 del 2001, si e' limitato a criticare genericamente la qualificazione della domanda operata dai Giudici a quibus, omettendo cioe' di argomentare criticamente e specificamente in ordine alla negata riconducibilita' nell'ambito applicativo della stessa legge n. 89 del 2001 anche della fattispecie del ritardo nel pagamento delle somme portate dal decreto Pinto.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.

giovedì 17 aprile 2014

CASSAZIONE N.6222/2014 IMPROPORZIONALITA' DEL LICENZIAMENTO

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, riguarda un'impugnativa di licenziamento disciplinare a seguito di contestazione disciplinare con l'addebito di uso improprio di strumenti di lavoro e in particolare del P.C. affidatogli, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica.
Il Lavoratore chiede e motiva  la nullità della sanzione, con richiesta di reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. 
Sia il Tribunale che la  Corte di Appello accoglievano la domanda, rilevando che il fatto contestato corrispondeva alla fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo applicabile, ove è stabilita solo una sanzione conservativa per l'infrazione consistente nell'utilizzazione "in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali". 
Ai sensi e per gli effetti dell'art 53 CCNL di categoria  tali comportamenti non erano comunque di gravità tale da giustificare il pensionamento, il datore di lavoro non avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia. 
De resto, anche a voler ritenere che la società datrice di lavoro intendesse contestare una fattispecie diversa e più grave di quella prevista dalla norma collettiva, le risultanze della consulenza tecnica di ufficio escludevano comunque la particolare gravità del comportamento del lavoratore ai fini della giustificazione del recesso. 
Il datore di lavoro impugnava la sentenza di appello denunciando vizi di violazione degli artt. 2119 cod.civ., 1 e 12 legge n. 604/1996, sostenendo che la comunicazione di addebito formulata al lavoratore  contestava l'"uso improprio da parte sua di strumenti di lavoro aziendali e, nella specie, del P.C. a lei affidato, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica". In tale comunicazione si rendeva noto l'accertamento di esistenza nel PC affidato al dipendente di "programmi coperti da copyright non forniti dall'azienda e non necessari" per lo svolgimento di attività; di installazione nello stesso PC, oltre ai programmi in dotazione, di "software diversi non forniti dall'azienda e non necessari; dell'avvenuta utilizzazione per innumerevoli volte durante l'orario lavorativo della casella di posta elettronica di dominio aziendale per scopi personali non giustificati, "eludendo le chiare informative e molteplici preavvisi effettuati dall'azienda". 
Si sostiene quindi che con tale lettera sono stati contestati non solo l'uso improprio dello strumento di lavoro aziendale, ma anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all'art. 2104 cod.civ., in relazione al richiamo della violazione di "chiare informative e "molteplici preavvisi", nonché la riscontrata presenza nello stesso P.C. di materiale di carattere pornografico. Inoltre, l'abilitazione di tale strumento ad impieghi nuovi e diversi comportava, per l'utilizzo di programmi coperti da copyright, la violazione dell'art. 64 della legge n. 633/1941 con esposizione del datore di lavoro a conseguente responsabilità. Di tali elementi non avrebbe tenuto conto la Corte territoriale, affermando che il comportamento contestato riguardava solo la fattispecie prevista dalla richiamata norma del contratto collettivo. 
Il ricorrente, inoltre, eccepiva che non era stata data la giusta rilevanza ed interpretazione alla CTU svolta laddove  aveva posto in luce elementi rilevanti ai fini della valutazione della gravità degli adempimenti, che non era stata adeguatamente compiuta. Sotto questo profilo, dovevano essere apprezzati sia l'uso quotidiano e molto frequente della posta elettronica, sia la installazione di una enorme quantità di file, con cui il lavoratore avrebbe dimostrato " di intendere il posto di lavoro e il tempo di lavoro come destinato ad attività di svago piuttosto che di adempimento" dell'obbligo di prestazione lavorativa. 
Il giudice di appello ha inoltre, secondo i ricorrenti,  omesso la valutazione della gravità dell'inadempimento sotto il profilo delle conseguenze pregiudizievoli per l'azienda dell'installazione di programmi coperti da copyright, come della violazione delle disposizioni impartite per l'uso del computer. 
Secondo la Cassazione non è posto in discussione il principio, applicato dalla Corte territoriale, secondo cui il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo applicabile in relazione ad una determinata infrazione (v. in questo senso, per tutte, Cass. 29 settembre 2005 n. 19053,17 giugno 2011 n. 13353). 
 Il riferimento a precedenti informazioni e preavvisi (cioè disposizioni del datore di lavoro in ordine all'uso del computer aziendale) non prospetta certo una violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento.
La "rilevata presenza di materiale pornografico" non corrisponde ad una specifica contestazione di addebito formulata con la suddetta lettera. La stessa non indica poi, quanto alla presenza di programmi coperti da copyright, la violazione di limiti posti alla utilizzazione dei programmi stessi, con conseguenti profili di responsabilità per l'azienda. 
Secondo la Corte di Cassazione il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato, è ugualmente infondato. 
La valutazione della gravità dell'inadempimento dal lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione attiene a questioni di merito che, ove risolte dal giudice di merito con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione sufficiente e non contraddittoria, si sottraggono al riesame in sede di legittimità (vedi tra le più recenti Cass. 7 aprile 2011 n. 7948, 25 maggio 2012 n. 8293). 
Nella specie, le critiche formulate dalla società ricorrente rilevano sotto il profilo del denunciato vizio di motivazione della sentenza in ordine a tale valutazione di gravità dell'inadempimento contrattuale, che il giudice dell'appello ha accertato affermando la rilevanza disciplinare del comportamento del dipendente. La censura investe peraltro gli stessi fatti già considerati dalla corte territoriale (in particolare con il richiamo delle risultanze della consulenza tecnica) e non indica quindi punti decisivi di cui sia stato trascurato l'esame. 
Il ricorso in Cassazione è stato rigettato.


martedì 15 aprile 2014

LICENZIAMENTO DELL'INVALIDO SOLO CON AUTORIZZAZIONE DELLA COMMISSIONE MEDICA

La Corte di Cassazione con sentenza emessa il 10 aprile 2014 n. 8450 dalla sezione lavoro ha stabilito che il soggetto invalido può essere licenziato solo se la Commissione Medica accerta l'impossibilità di reiserimento all'interno dell'azienda .
Il soggetto invalido se è stato assunto tramite  chiamata dalle liste di collocamento dei disabili, il suo recesso potrà ritenersi legittimo in presenza delle condizioni previste dall'art 10 della legge 68 del 1999.
Poiché la valutazione in ordine alla definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti all'organizzazione del lavoro, è riservata esclusivamente alla Commissione di cui all'art. 10, comma 3, di detta legge, secondo la sentenza qui impugnata il datore di lavoro avrebbe potuto validamente intimare il recesso soltanto nel caso in cui l'organo sanitario avesse ravvisato tale impossibilità.
Con la presentazione del ricorso in Cassazione si obietta che, su iniziativa del lavoratore, la Commissione medica non l'aveva dichiarato completamente inabile al lavoro, bensì abile con la limitazione di evitare la "prolungata stazione eretta". Poiché però nell'organizzazione aziendale non vi erano posizioni lavorative compatibili con tale limitazione era stato necessario licenziare il lavoratore.
Il motivo è infondato per le ragioni, correttamente richiamate dalla Corte territoriale, espresse da Cass. n. 15269 del 2012 al cui insegnamento occorre dare continuità.
La L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 3, prescrive che "Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute. Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che, sulla base dei criteri definiti dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 1, comma 4, sia incompatibile con la prosecuzione dell'attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell'organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l'incompatibilità persista. Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Gli accertamenti sono effettuati dalla commissione di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 4 integrata a norma dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'articolo 1, comma 4, della presente legge, che valuta sentito anche l'organismo di cui al D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, art. 6, comma 3, come modificato dall'art. 6 della presente legge. La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda".
Tale norma, ha sostituito la precedente norma speciale (L. n. 482 del 1968, art. 10 in rel. all'art. 20 della stessa legge), con riferimento alla quale questa Corte (v. Cass. n. 10347 del 2002) ha affermato il principio secondo cui, "il licenziamento dell'invalido assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio segue la generale disciplina normativa e contrattuale sol quando è motivato dalla comuni ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, mentre, quando è determinato dall'aggravamento dell'infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza delle condizioni previste dalla L. n. 482 del 1968, art. 10 ossia la perdita totale della capacità lavorativa o la situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertati dall'apposita commissione medica".
Tale principio di specialità va ribadito anche in relazione alla nuova normativa, con riguardo alle condizioni e modalità ivi previste (competenza speciale della commissione di cui alla L. n. 104 del 1992, come appositamente integrata e con valutazione "sentito anche" l'organismo di cui al D.Lgs. n. 469 del 1997, art. 6, comma 3; verifica se il disabile, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l'azienda; possibilità di risoluzione del rapporto soltanto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell'azienda").
"La verifica di tali condizioni, poi, è categoricamente riservata alla competenza della apposita commissione, che valuta le condizioni stesse in funzione della maggior tutela riservata ai disabili (per i quali ai fini della risoluzione del rapporto è necessaria la definitiva impossibilità di reinserimento all'interno dell'azienda anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro)" (in termini: Cass. n. 15269 del 2012).
Poiché nella specie è pacifico che il licenziamento del ricorrente non è stato preceduto da un accertamento effettuato dalla Commissione di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 4, integrata a norma dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 1, co. 4, della L. n. 68 del 1999, che abbia valutato, sentito anche l'organismo di cui al d. lgs. n. 469 del 1997, art. 6, co. 3, come modificato dall'art. 6 della L. n. 68 del 1999, la definitiva impossibilità di reinserire il ricorrente  all'interno dell'azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, la pronuncia della Corte territoriale ha fatto corretta applicazione delle norme di diritto cui è sussumibile la fattispecie concreta.


venerdì 11 aprile 2014

RINNOVATO IL "PIANO FAMIGLIE" POSSIBILE SOSPENSIONE DEL MUTUO

L'Abi, l'Associazione bancaria italiana ha rinnovato per la quinta volta consecutiva il "Piano per le famiglie" che prevede la possibilità di chiedere la sospensione del pagamento delle rate del mutuo.
Le richieste da consegnare in banca su moduli prestampati  vanno presentate entro il 31 marzo. 
Si attende, invece, l'attivazione del  il "Fondo di solidarietà per i mutui per l'acquisto della prima casa" nato nel 2010  e da allora rimasto incompiuto. 
 Già la  Commissione Bilancio della Camera ha dato il via libera al nuovo regolamento necessario al funzionamento del fondo si attende quindi l'esito del Senato.
 In caso di approvazione il "Fondo" potrebbe subentrare da aprile al "Piano famiglie" in modo tale che gli italiani in difficoltà con il pagamento delle rate possano trovare un'altra possibilità  senza interruzione.
Tuttavia, va detto che ci sono sensibili differenze tra il "Piano famiglie" e il "Fondo di solidarietà", sia per l'accesso che per gli interessi da pagare,  mentre con il "Piano Famiglie" gli interessi delle rate sospese sono comunque a carico del mutuatario, chi accederà al Fondo avrà l'esenzione degli interessi, che sono a carico della banca che a sua volta potrà rivalersi sul fondo statale.
Le condizioni di accesso al  "Fondo di solidarietà" sono più vincolanti del "Piano famiglie". Se quest'ultimo offre l'accesso anche a chi perde un posto di lavoro a tempo determinato e/o va in cassa integrazione (a patto che gli eventi si siano verificati entro il 28 febbraio), il "Fondo di solidarietà" darà la possibilità  solo a chi ha perso un posto di lavoro a tempo indeterminato, oltre che per morte o sopraggiunta non autosufficienza del mutuatario .
 Il "piano famiglie" contempla mutui prima casa fino a 150mila euro ed esclude quelli variabili a rata costante. Non fa riferimento all'Isee ma al reddito lordo imponibile (come da ultima dichirazione dei redditi del mutuatario) che non deve superare 40mila euro.
Mentre il fondo prevede la possibilità  a favore dei  mutui per la prima casa fino a 250mila euro a tasso fisso, variabile e misto. L'Isee  non deve superare 30mila euro.
 Il fondo dà la possibilità di ottenere una sospesione massima di 18 mesi contro i 12 mesi del piani . La moratoria prevista dal pacchetto famiglie può essere di due tipi: 1) sospensione della sola quota capitale (in questo caso si paga solo la parte interessi della rata); 2) sospensione integrale della rata e applicazione del tasso contrattuale al debito residuo.
In tal caso gli interessi maturati nel periodo di sospensione vengono rimborsati (senza applicazione di ulteriori interessi), a partire dal pagamento della prima rata successiva alla ripresa dell'ammortamento, con pagamenti periodici (aggiuntivi rispetto alle rate in scadenza e con pari periodicità) per una durata che sarà definita dalla banca sulla base degli elementi forniti dal mutuatario.
A livello finanziario, quindi, la portata solidale del fondo è superiore. Perché, come preannunciato, il fondo  si fa carico degli interessi delle rate sospese mentre il "Piano famiglie" li addebita al mutuatario al termine della sospensione allungando la durata del mutuo. Pertanto, se al termine della sospensione le condizioni reddituali del mutuatario non sono migliorate, il rischio di ritrovarsi nuovamente in difficoltà con il rimborso del mutuo, aggravato dai vecchi interessi è alto. 

giovedì 10 aprile 2014

APPROVATO IL DISEGNO DI LEGGE: PER DIVORZIARE BASTERA' UN ANNO

In data 09.04.2014 la Commissione Giustizia della Camera ha approvato all'unanimità la modifica dell'art 3 della legge 898/ 1970 sul Divorzio stabilendo che i coniugi potranno fare richiesta di scioglimento degli effetti civili del matrimonio decorso un anno dalla separazione, sia essa consensuale, giudiziale o di fatto
Finalmente viene varato un abbattimento dei tempi di attesa poichè il  testo unificato del Ddl riduce gli attuali tre anni a uno il tempo di separazione necessario, che scende ancora a nove mesi nelle separazioni consensuali, se non ci sono figli minori. 
Il Ddl modifica anche la data di decorrenza che non sarà più considerata la cd Presidenziale, cioè l'udienza di comparizione dei coniugi di fronte al Presidente del Tribunale ma dal deposito della domanda di separazione cd iscrizione a ruolo
Inoltre, econdo lo schema di Ddl, i nuovi termini decorrono dal deposito della domanda di separazione e non, come accade ora, dalla comparizione dei coniugi di fronte al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione. È una modifica introdotta, per mettere tutti i coniugi nella stessa situazione, senza farli dipendere dai tempi differenti di fissazione delle udienze nei vari tribunali.
Con l'autorizzazione da parte del Presidente ai coniugi a vivere separati il Ddl sancisce anche la modifica dell'art 191 del codice civile per cui  da quel medesimo momento si scioglie anche l'eventuale regime patrimoniale di comunione dei beni scelto dai coniugi.
Inoltre, lo schema di Ddl interviene sull'articolo 191 del Codice civile precisando che la comunione dei beni si scioglie già nel momento in cui, in sede di udienza presidenziale, il giudice autorizza i coniugi a vivere separati. 
Il Ddl deve passare in tempi brevi al Senato.

mercoledì 9 aprile 2014

La Corte di giustizia dichiara invalida la direttiva sulla conservazione dei dati telefonici

La Direttiva Europea dichiarata invalida dalla Corte Europea sostanzierebbe  un’ingerenza  di particolare gravità nei diritti fondamentali dell'individuo diretti al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, ingerenza che non sarebbe limitata allo stretto necessario 
La direttiva finalizzata alla conservazione dei dati è stata il risultato della necessità di coordinare tutte le disposizioni degli Stati membri sulla conservazione di determinati dati generati o trattati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di 
comunicazione
La primaria finalità delle disposizioni contenute nella Direttiva è rappresentata dalla necessità di garantire la disponibilità di tali dati a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi, come in particolare i reati legati alla criminalità organizzata e al terrorismo. In tal senso, la direttiva dispone che i suddetti fornitori debbano conservare i dati relativi al traffico, i dati relativi all'ubicazione nonché i dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente. 
La direttiva non autorizza, invece, la conservazione del contenuto della comunicazione e delle informazioni consultate. 
L'eccezione di invalidità della direttiva è stata sollevata  alla luce di due diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ossia il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale. 
L'invalidità sancita dalla Corte europea fa leva sulla valutazione che i dati d cui si dispone la conservazione consentono di conoscere sia  con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato, sia  di determinare il momento della comunicazione nonché il luogo da cui ha avuto origine e sia di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni sociali e gli ambienti sociali frequentati. 
La Corte ritiene che la direttiva, imponendo la conservazione di tali dati e consentendovi l’accesso alle autorità nazionali competenti, si ingerisca in modo particolarmente grave nei i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere .
La dichiarazione di invalidità della Direttiva ha efficacia sin dall'entrata in vigore della stessa, in quanto la Corte non ha precisato un limite di decorrenza. 
La Corte dispone ed accerta, inoltre che  la conservazione dei dati imposta dalla direttiva non è idonea ad arrecare pregiudizio al contenuto essenziale dei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Infatti, la direttiva non consente di prendere conoscenza del contenuto delle comunicazioni elettroniche in quanto tale e prevede che i fornitori di servizi o di reti debbano rispettare determinati principi di protezione e di sicurezza dei dati. 
Inoltre, la conservazione dei dati ai fini della loro eventuale trasmissione alle autorità nazionali competenti risponde effettivamente a un obiettivo di interesse generale, vale a dire la lotta 
alla criminalità grave nonché, in definitiva, la pubblica sicurezza. 
Tuttavia, la Corte ritiene che il legislatore dell’Unione, con l’adozione della direttiva sulla conservazione dei dati, abbia ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità. 
A tale riguardo, la Corte osserva che, in considerazione, da un lato, dell’importante ruolo svolto dalla protezione dei dati personali nei confronti del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e, dall’altro, della portata e della gravità dell’ingerenza in tale diritto che la direttiva comporta, il potere discrezionale del legislatore dell’Unione risulta ridotto e che occorre quindi procedere a un controllo rigoroso. 
Anche se la conservazione dei dati imposta dalla direttiva può essere considerata idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito dalla medesima, l’ingerenza vasta e particolarmente grave di tale direttiva nei diritti fondamentali in parola non è sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario. 
In primo luogo, infatti, la direttiva trova applicazione generalizzata all’insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo della lotta contro i reati gravi. 
In secondo luogo, la direttiva non prevede alcun criterio oggettivo che consenta di garantire che le autorità nazionali competenti abbiano accesso ai dati e possano utilizzarli solamente per prevenire, accertare e perseguire penalmente reati che possano essere considerati, tenuto conto della portata e della gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali summenzionati, sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza. Al contrario, la direttiva si limita a fare generico rinvio ai «reati gravi» definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale. Inoltre, la direttiva non stabilisce i presupposti materiali e procedurali che consentono alle autorità nazionali competenti di avere accesso ai dati e di farne successivo uso. L’accesso ai dati, in particolare, non è subordinato al previo controllo di un giudice o di un ente amministrativo indipendente. 
In terzo luogo, quanto alla durata della conservazione dei dati, la direttiva impone che essa non sia inferiore a sei mesi, senza operare distinzioni tra le categorie di dati a seconda delle persone interessate o dell’eventuale utilità dei dati rispetto all’obiettivo perseguito. Inoltre, tale durata è compresa tra un minimo di sei ed un massimo di ventiquattro mesi, senza che la direttiva precisi i criteri oggettivi in base ai quali la durata della conservazione deve essere determinata, in modo da garantire la sua limitazione allo stretto necessario. 
La Corte constata peraltro che la direttiva non prevede garanzie sufficienti ad assicurare una protezione efficace dei dati contro i rischi di abusi e contro qualsiasi accesso e utilizzo illeciti dei dati. Essa rileva, tra l’altro, che la direttiva autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare  e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione. 
La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. La direttiva non garantisce, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza, come è invece espressamente richiesto dalla Carta. Orbene, un controllo siffatto, compiuto sulla base del diritto dell’Unione, costituisce un elemento essenziale del rispetto della protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali.

martedì 8 aprile 2014

CORTE COSTITUZIONALE: SENTENZA 02.04.2014 n° 69 NON APPLICABILITA' AI GIUDIZI IN CORSO DEI NUOVI TERMINI DI DECADENZA PREVIDENZIALI

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità dell'art 38 comma 4 del DL 98/2011 che recita :
"Le disposizioni di cui al comma 1, lettera c) e d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata invigore del presente decreto".
Vale a dire  comma 1 "
1. Al fine di realizzare una maggiore economicita' dell'azione amministrativa e favorire la piena operativita' e trasparenza dei pagamenti, nonche' deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi,previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848: 
lettera c e d
 c) all'articolo 35 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223,convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,dopo il comma 35 quater, e' aggiunto il seguente: "35 quinquies. Gli enti previdenziali provvedono al pagamento delle somme dovute a titolo di spese, competenze e altri compensi in favore dei procuratori legalmente costituiti esclusivamente attraverso l'accredito delle medesime sul conto corrente degli stessi. A tal fine il procuratore della parte e' tenuto a formulare richiesta di pagamento delle somme di cui al periodo precedente alla struttura territoriale dell'Ente competente alla liquidazione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata, comunicando contestualmente gli estremi del proprio conto corrente bancario e non puo' procedere alla notificazione del titolo esecutivo ed alla promozione di azioni esecutive per il recupero delle medesime somme se non decorsi 120 giorni dal ricevimento di tale comunicazione.";
d) al decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970 n.639, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche:
1) all'articolo 47 e' aggiunto, in fine, il seguente comma: "Le decadenze previste dai commi che precedono si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito.
In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte."; 
2) dopo l'articolo 47 e' inserito il seguente: "47 bis. 1. Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorche' non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonche' delle prestazioni della gestione di
cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni."
La Corte Costituzionale in sintesi affera l'illegittimità della disposizione che stabilisce il termine prescrizionale di 5 anni, anziché di 10 anni per il pagamento dei ratei arretrati, ancorché non liquidati, dei trattamenti pensionistici, nonché delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazione .
 Nel corso di un giudizio civile, avente ad oggetto l’adeguamento di una prestazione previdenziale, il  Tribunale ordinario di Roma – premessane la rilevanza nel giudizio a quo e motivatane la non manifesta infondatezza, in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione – ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.
La norma censurata  per tale sua portata retroattiva, il rimettente ne sospetta, appunto, il contrasto con l’evocato parametro costituzionale.
 Il Tribunale ordinario di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, e ne prospetta il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il duplice profilo della violazione del principio di eguaglianza e della irragionevolezza, nella parte in cui detta norma stabilisce che «Le disposizioni di cui al comma 1, lettera c) e d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto».
La richiamata lettera d) del comma 1 dell’art. 38 del d.l. n. 98 del 2011 – che la norma censurata rende, appunto, retroattivamente applicabile «anche ai giudizi pendenti in primo grado» – fa, a sua volta, corpo con l’art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 (Attuazione delle deleghe conferite al Governo con gli artt. 27 e 29 della legge 30 aprile 1969, n. 153, concernente revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale).
A detta ultima disposizione l’art. 38, comma 1, del d.l. n. 98 del 2011 aggiunge, infatti, un ultimo comma, a tenore del quale «Le decadenze previste dai commi che precedono [id est: dai commi 2 e 3 del citato articolo 47] si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte». Ed inserisce, di seguito, un articolo 47-bis, con il quale si stabilisce che «Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni».
 Ciò che, infatti, viene in discussione non è la diversa e più articolata fissazione dei termini, per la richiesta di prestazioni previdenziali accessorie o di ratei arretrati, prevista dal legislatore del 2011, bensì unicamente il fatto che i termini, di decadenza e prescrizione, all’uopo stabiliti nella più volte richiamata lettera d) del comma 1 dell’art. 38, sia resa retroattivamente applicabile «anche ai giudizi pendenti in primo grado», dal successivo comma 4 dello stesso art. 38 del d.l. n. 98 del 2011.
Ed è in relazione a detta ultima norma, appunto, che il Tribunale rimettente chiede a questa Corte di verificare l’eventuale confliggenza con i parametri di cui all’art. 3, primo e secondo comma, Cost.
 A tal riguardo, questa Corte ha ulteriormente, e reiteratamente, precisato come l’efficacia retroattiva della legge trovi, in particolare, un limite nel «principio dell’affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico», il mancato rispetto del quale si risolve in irragionevolezza e comporta, di conseguenza, l’illegittimità della norma retroattiva (sentenze n. 170 e n. 103 del 2013, n. 271 e n. 71 del 2011, n. 236 e n. 206 del 2009, per tutte).
E, in linea con tale indirizzo, ha anche sottolineato come il principio dell’affidamento trovi applicazione anche in materia processuale e risulti violato a fronte di soluzioni interpretative, o comunque retroattive, adottate dal legislatore rispetto a quelle affermatesi nella prassi (sentenze n. 525 del 2000 e n. 111 del 1998).
Con ancor più puntuale riguardo a disposizioni processuali sui termini dell’azione, questa Corte ha poi comunque escluso che l’istituto della decadenza tolleri, per sua natura, applicazioni retroattive, «non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto [...] per mancato esercizio da parte del titolare in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto [...] debba essere esercitato» (sentenza n. 191 del 2005).
Nella specie, la norma censurata, per contro, prevede che il diritto ad accessori o ratei arretrati di già riconosciute prestazioni pensionistiche – diritto il cui titolare confidava, sulla base della pregressa consolidata giurisprudenza, essere unicamente soggetto alla prescrizione decennale – si estingua (in assenza di una già ottenuta decisione di primo grado), ove la domanda – di accessori o di ratei arretrati – non risulti, rispettivamente, proposta nel più ridotto termine triennale di decadenza od in quello quinquennale di prescrizione.
Da ciò, quindi, l’illegittimità costituzionale del denunciato art. 38, comma 4, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge n. 111 del 2011, per violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., in ragione del vulnus arrecato al principio dell’affidamento, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma1, lettera d), si applicano anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto.

giovedì 3 aprile 2014

DANNO DA RESPONSABILITA' MEDICA RECENTE SENTENZA CASS. 27.03.2014 n° 7195

Tizio citava in giudizio alcuni medici di un ospedale a seguito del decesso della moglie Caia, dovuto ad una grave patologia neoplastica,  sostenendo  che, per fatto e colpa dei dipendenti o collaboratori della struttura sanitaria, Caia era stata vittima di un erroneo trattamento terapeutico. Nello specifico, i chirurghi, riscontrato il tumore ovario di cui era affetta la vittima, si sarebbero limitati al solo ovaio colpito dalla neoplasia, senza asportare anche l'altro ovaio e l'utero, decisione che, a detta della difesa attrice, aveva comportato la perdita di chance di sopravvivenza e/o l'accelerazione del decesso di Caia. In entrambi i due primi gradi di giudizio, tuttavia, le istanze di Tizio venivano rigettate, escludendosi che la condotta dei sanitari potesse essere, nella fattispecie, ascritta a concausa della morte di Caia. Analoga sorte per ciò che attiene la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance. Tizio   ricorreva in Cassazione  per ottenere la cassazione del capo di sentenza che aveva rigettato la domanda di risarcimento di tale voce di danno.
Con un primo motivo di riscorso Tizio censurava la sentenza della Corte di appello per "mancata pronuncia su un punto essenziale" e facendo riferimento alla giurisprudenza di legittimità in tema di perdita di chance, sosteneva che i giudici del merito avrebbero dovuto riconoscere la tutela patrimoniale rispetto al diritto a mantenere intatte le proprie chances di sopravvivenza, diverso da quello della vita o dell'integrità fisica. Tizio, in particolare, evidenziava come si sarebbe dovuta riconoscere, nel caso di specie, la tutela ad “un bene intermedio”, quale il diritto a mantenere integre le proprie chances, che presuppone il riconoscimento dell'autonomia della chance rispetto al risultato utile prefigurato.
Ebbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte territoriale in diversa composizione.
 In particolare, la Terza Sezione ha aderito all’impostazione difensiva in virtù della quale riconoscere il diritto del malato a mantenere integre le proprie chances di sopravvivenza equivale a presupporre il riconoscimento della tutela ad un “bene intermedio” diverso da quello della vita e da quello della salute: il che determina l’autonomia della chance rispetto al risultato utile prefigurato.
Pertanto alla luce di detta interpretazione, se ne deduce:
a) in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico, che normalmente sia da praticare per evitare che l’esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo, prima del suo normale decorso, e risulti inoltre che, per effetto del ritardo, sia andata perduta dal paziente la chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita nonché la chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti;
b) dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.
Il “danno da perdita di chance di guarigione” è già stato introdotto con la pronuncia4400/2004 .
La chance perduta veniva inizialmente definita come la concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, e non una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, o meglio la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, era considerata tale da configurare un danno concreto ed attuale.
La Suprema Corte ha in seguito ulteriormente precisato, con la pronuncia 21619/2007, che quando i criteri di accertamento causale danno esito negativo si può ricorrere alla causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa  come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute.
 Il danno da perdita di chance conseguente ad errore medico è stato  inquadrato  dalle Sezioni Unite della Cassazione riconducendo  il danno alla persona nelle due categorie del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale .
Atteso che la giurisprudenza ha confermato la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, si può ritenere che  il danno da perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza conseguente ad errore medico  possa assumere valenza anche sotto il profilo, appunto, non patrimoniale (ricordiamo la natura obbligatoria del contratto di spedalità tra paziente e medico).
Conseguentemente, sarà possibile configurare una perdita di chance ogni qual volta il comportamento negligente, imprudente o imperito del medico, comporti  un aggravamento o  una mancata guarigione del paziente, che abbia comportato:
a) la perdita, per la vittima, di concrete possibilità di lavoro o miglioramenti economici (con conseguente danno c.d. da perdita di chance patrimoniale);
b) la compromissione di attività realizzatrici dell’individuo attraverso la violazione di diritti ed interessi protetti dalla Costituzione o da specifiche norme di legge (con conseguente danno da perdita di chance non patrimoniale). 
La peculiarità di tale danno consisterà, pur sempre, nella possibilità di risarcire un danno futuro ed incerto, ma probabile, indipendentemente dall’avverarsi del pregiudizio, costituendo oggetto del risarcimento la chance perduta e non il danno effettivo.

venerdì 28 marzo 2014

MOBBING: MANSIONI SUPERIORI -DANNO BIOLOGICO - DANNO ESISTENZIALE


Un'importante sentenza della Corte di Appello di Perugia emessa in data 22.10.2013 evidenzia gli elementi probatori da utilizzare in fase istruttoria in ipotesi di richiesta di riconoscimento di un inquadramento superiore.
Pertanto oltre a produrre il Contratto Collettivo di categoria in cui viene esplicitamente elencato il livello richiesto e conseguentemente le mansioni espletate dal ricorrente, lo stesso deve in ricorso ed in fase probatoria sia con l'ausilio di testi sia con l'ausilio documentale provare le modalità di svolgimento delle mansioni superiori richieste e svolte.
Laddove la richiesta di riconoscimento di mansioni superiori sia connessa ad una richiesta di riconoscimento di mobbing, la Corte d'appello ha precisato che il risarcimento biologico chiesto ed ottenuto ricomprende anche il danno morale, mentre il danno esistenziale necessita di una rigorosa prova.
La Corte d'Appello di Perugia ha precisato:" poiché le mansioni in relazione a cui il lavoratore rivendicava un superiore inquadramento potevano astrattamente rientrare in diverse qualifiche, a seconda che le stesse fossero state svolte in maniera più o meno complessa, egli avrebbe dovuto illustrare - oltre alla declaratoria contrattuale del livello richiesto e alle mansioni esercitate - anche le modalità di svolgimento delle medesime, provando la gradazione e l'intensità dell'attività espletata, in termini di responsabilità, autonomia, complessità e coordinamento; il lavoratore aveva lamentato di aver subito, a causa di mobbing, un pregiudizio biologico, morale ed esistenziale, ma il ristoro per l'eventuale danno morale era, in ogni caso, già ricompreso nell'importo erogato, in suo favore, a titolo di risarcimento del danno biologico sulla scorta delle tabelle elaborate dal Tribunale di Roma. Il dedotto danno esistenziale, invece, sarebbe potuto rilevare, ai fini della personalizzazione del danno biologico, soltanto se fosse stato rigorosamente provato".

giovedì 27 marzo 2014

UN CASO CONCRETO : QUOTA DELLA PENSIONE REVERSIBILITA' EX CONIUGE

TIZIA, moglie divorziata di CAIO, deceduto , agiva in giudizio nei confronti di MEVIA, moglie superstite, per ottenere il riconoscimento del proprio diritto ad una quota della pensione di reversibilità e del trattamento di fine rapporto, traenti origine dal rapporto di lavoro di CAIO.
Il Tribunale in primo grado, determinava la quota spettante al coniuge divorziato della pensione di reversibilità nella misura del 70% e quella spettante al coniuge superstite nella misura del 30%, sulla base della maggior durata del primo matrimonio,  rispetto a quella del secondo matrimonio; rigettava la domanda di Tizia diretta ad ottenere da Mevia la restituzione delle somme relative alla pensione di reversibilità percepite in misura superiore a quella spettante alla moglie superstite; riconosceva il diritto di Tizia  ad una quota del trattamento di fine rapporto dell'ex coniuge nella misura del 40% dell'indennità totale corrisposta a Caio, e condannava la Mevia,  al pagamento della predetta quota .
Avverso la sentenza di primo grado Mevia proponeva appello.
La Corte d'appello,  respingeva l'appello .
Mevia ricorreva per cassazione che in accoglimento del solo secondo motivo di ricorso, cassava la decisione impugnata rinviando alla Corte d'appello in diversa composizione, per l'applicazione del principio di diritto enunciato e per la disciplina delle spese processuali, incluse quelle pertinenti al giudizio di cassazione.

Il giudizio veniva riassunto  e la  Corte d'appello,  determinava nella percentuale del 60% del totale la quota della pensione di reversibilità derivante dall'attività lavorativa prestata dal defunto  da attribuire alla moglie divorziata Tizia, e nel 40% la quota della medesima pensione da attribuire alla moglie superstite Mevia.
Nello specifico, la Corte del merito, premesso il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, ha ritenuto di dovere procedere al complessivo riesame degli elementi correttivi del criterio meramente temporale della durata dei matrimoni, al fine dell'equa ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite.

Tanto premesso, la Corte  del merito ha rilevato che le prove documentali legittimamente acquisite nel corso del giudizio di merito consentivano di ritenere provate le seguenti circostanze: la durata molto modesta dell'effettiva convivenza tra Tizia e Caio; la relazione affettiva tra il Mevia e Caio, documentata ; l'attribuzione a Tizia, con la predetta sentenza di scioglimento del matrimonio, dell'assegno di divorzio ; le diverse condizioni reddituali della moglie divorziata rispetto a quella superstite, essendo Tizia sprovvista di redditi propri e Mevi, . titolare di propria pensione ed inoltre proprietaria di alcuni beni immobili.

Valutato quindi, con la doverosa ponderazione, insieme alla durata legale dei due matrimoni, anche il tempo dell'effettiva convivenza i Tizia con Caio, di fatto inferiore a quello della relazione affettiva dello stesso Caio. con la Mevia.; valutato l'assegno di divorzio riconosciuto a Tizia ed il divario economico esistente tra le due mogli a favore della prima, priva di redditi autonomi, la Corte del merito ha temperato il criterio della durata legale dei due matrimoni con i parametri costituiti dalla maggiore durata dell'effettiva convivenza con la Mevia  e dell'entità dell'assegno divorzile, ed ha ritenuto equo attribuire alla moglie divorziata, priva di redditi propri anche in precarie condizioni di salute, una quota pari al 60% della pensione di reversibilità ed alla moglie superstite, la quota del 40% della medesima pensione.
Ricorre avverso detta pronuncia Mevia, sulla base di quattro motivi.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia "infedele esecuzione da parte del giudice di rinvio del principio di diritto enunciato dalla S.C. con la pronuncia di annullamento ed omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia- Violazione dell'art. 384 c.p.c. in relazione all'art.9 l. 898/70(art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.)" Secondo la ricorrente, il Giudice del rinvio ha solo operato il parziale riesame delle prove documentali; la Suprema Corte aveva affermato la rilevanza dell'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso e dell'esistenza del periodo di convivenza prematrimoniale, ritenendo assorbite le censure sulla statuita inammissibilità delle prove; la Corte del merito è tornata a fondare la decisione sugli stessi elementi già considerati dalla sentenza annullata, mentre avrebbe dovuto considerare la proporzione esistente tra lo stipendio di Caio , e l'assegno divorzile di Tizia., priva di altre fonti di reddito, e, in secondo luogo, i diversi tenori di vita goduti dalle parti prima del decesso, che  aveva costituito con la Mevia una comunione materiale oltre che spirituale; avrebbe dovuto altresì verificare l'esatto ammontare della pensione di Caio  alla data delle nozze con la Mevia, accertare il tenore di vita goduto da dette parti, e quindi determinare la percentuale della pensione di reversibilità spettante a Tizia, in ragione dei caratteri solidaristici della pensione stessa, dei principi di uguaglianza sostanziale e solidarietà sociale, di quanto statuito dalla Corte cost. con la sentenza 419/99 e dell'intento del legislatore, di cui alla L. 898/1970.


La  Corte, nell'accogliere il secondo motivo del ricorso di Mevia , respinti gli altri, ha enunciato il principio di diritto, al quale avrebbe dovuto attenersi il Giudice del rinvio, richiamando la propria precedente giurisprudenza in relazione alla ripartizione del trattamento di reversibilità in caso di concorso tra il coniuge superstite ed il coniuge divorziato, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, e specificamente indicando che tale ripartizione "deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale (ossia del dato numerico rappresentato dalla proporzione fra le estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi coniugi con l'ex coniuge deceduto) anche ponderando ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale; fra tali elementi, da individuarsi nell'ambito della l. n. 898 del 1970, art.5, specifico rilievo assumono l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge, nonché le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, e in quest'ottica, e al solo fine di evitare che l'ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio, ed il secondo coniuge il tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita, anche l'esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal Giudice del merito quale elemento da apprezzare per una più compiuta valutazione delle situazioni”.

Il S.C. ha pertanto annullato la sentenza della Corte d'appello per non essersi uniformata a detto principio .